Ferrera Moncenisio

In montagna il periodo tra fine aprile e luglio è quello di vita più intensa e non solo per gli uomini che possono finalmente, dopo l’inverno, riprendere le attività esterne, arare, seminare, ma anche per le nascite di tanti selvatici, le covate, le fioriture.
Così, mentre il sole sta tramontando dietro le Corna Rosse e le nevi di Giusalet e Bard sono ormai in ombra, le prime macchie colorate ricoprono le praterie lungo il Cammino Reale, con gli uccelli frenetici nelle melodie dei corteggiamenti e nelle corse per i nidi. Anche il gallo forcello, là vicino al formicaio sul sentiero del lago, cerca proteine adesso che la coltre di neve è scomparsa.
E intanto, sulla cresta ripida dove la cascata del Lamet si è liberata dal ghiaccio, ecco incrociarsi camosci e stambecchi a cercare i primi ciuffi d’erba olina, là dove un tempo non lontano i montanari del paese andavano a cercarla loro l’erba per le bestie, muniti di rudimentali ramponi legati con cinghie di cuoio e poi a fare “barion” e trascinarli giù in paese con corde e rinvii sino alle grange, con la speranza di non cadere e perdere la vita per quella fame d’erba, che poi era miseria e fatica.

Ferrera-Moncenisio, il nostro villaggio alpino a 1.460 metri d’altitudine, nella splendida Val Cenischia, Vallata laterale alla Valle di Susa, con il confine francese a duecento metri dalle case.
A dire il vero il territorio comunale era estesissimo, comprendeva i forti e il grande lago su al Colle del Moncenisio, ma con la fine della guerra il trattato di pace del 1947 sancì che la Francia si prendesse tutto e, così il Valico venne chiuso in inverno e il paese di Ferrera divenne comune di Moncenisio.
Ferrera invece, il nome storico, c’è chi lo attribuisce a miniere di ferro della zona, oppure al verbo latino “ferre” cioè portare, richiamandosi all’antico mestiere dei paesani che era quello di guide per chi volesse attraversare il Colle.
“Marrons” si chiamavano gli abitanti del luogo che per secoli hanno accompagnato eserciti, pellegrini, mercanti, papi, re e imperatori lungo la via per andare o venire dall’Europa a Roma. E se si avevano i soldi ci si poteva far trasportare su una specie di sedia la “Ramasse” portata a spalle in salita e poi guidata come una slitta sulla neve in discesa.
Oggi a spalle si trasporta ancora la statua di San Giorgio, patrono del paese, il giorno della festa del 23 aprile, magari con ancora un poco di neve per le vie del borgo. La sua statua, collocata a fianco dell’altare della chiesetta parrocchiale, è stata sempre oggetto di un’antica affezione per la gente di queste montagne che si rivolgeva con riservatezza ad un Dio del quale si ha così grande rispetto che, per parlargli, si cerca un intermediario, San Giorgio appunto, o la Madonna del Rocciamelone.

Dopo la fine della guerra, che proprio qui ebbe il suo inizio nel giugno del 1940, tanti abbandonarono, complice l’industrializzazione e la propaganda, scendendo al piano in cerca di nuove occupazioni, di una vita meno grama.
Prima, quando l’esistenza era regolata dai lavori stagionali, era una vita semplice, povera, pochi soldi e tanta fatica. Si nasceva, si lavorava, ci si sposava, si lavorava, a volte si andava in guerra, si mettevano al mondo dei figli, si lavorava, si moriva e solo allora si smetteva di lavorare.
I giorni di festa erano rari. I raccolti e le poche bestie bastavano per vivere, si compravano solo gli attrezzi agricoli che non si potevano costruire da sé, oppure un cartoccio di sale o di zucchero. Nelle sere invernali c’erano le veglie, poi tutti a letto, coperte ruvide e le lenzuola migliori tenute per i malati e le partorienti, così come un cambio di biancheria buono nel caso si finisse in ospedale.
Le cappelle di San Giuseppe, Santa Barbara, Sant’ Antonio, San Pancrazio, le statue lignee dorate, il canalone di cemento armato che imbriglia il torrente Cenischia in centro paese costruito negli anni settanta in contemporanea alla grande diga di pietre e terra su al Colle del Moncenisio. La resistenza di una cultura alpina, antichi linguaggi, la natura selvaggia e un mondo montano colpevolmente e volutamente abbandonato dalle istituzioni. Retorica, spruzzate di folclore, studiosi, convegni, ma intanto troppa burocrazia e niente finanziamenti per investire sul territorio, dare servizi ai residenti, mantenere aziende agricole che con il loro lavoro tutelino l’ambiente evitando il degrado.
Eppure da queste parti transitò persino Annibale con i suoi elefanti e per secoli tutta l’Europa, da Carlo Magno a Napoleone il quale, provati di persona i pericoli del transito invernale, costruì quella che ancora oggi è la strada statale tra Italia e Francia. E poi Fell, l’ingegnere il quale ideò e guidò la realizzazione del Chemin de Fer du Mont Cenis, che collegò Susa a Saint Michel de Maurienne per un tracciato di 80 chilometri dal 1868 al 1871, con locomotive a terza rotaia centrale in grado di superare la pendenza e correre lungo il tracciato della strada napoleonica anche in gallerie per evitare le slavine e permettere l’uso anche in inverno.

La montagna con gli zoccoli ai piedi non c’è più, pittoresca, era però un mondo di fatiche inenarrabili e miseria, dove solo la vivacità dell’impegno, incredibili sacrifici, emigrazioni stagionali, tanto cuore, hanno permesso a generazioni di rimanere legate alla terra. I nostri paesaggi stupendi erano difficili da guardare per chi lavorava chino, ma oggi finalmente si supera la retorica e, senza abbandonarsi a lagne sterili o rimpianti, è tempo di vivere Ferrera-Moncenisio affinché non sia un museo e neppure un parco giochi per turisti occasionali.
E’ esistita e in parte ancora esiste, una civiltà alpina, ma non siamo più il territorio degli ultimi, dei vinti. Si è compresa la necessità di un uso corretto del suolo, ma anche che bisogna pulire rii, boschi, sfalciare prati, usare piste. Reclamiamo e lavoriamo per non essere più periferia, ma parte di un sistema policentrico, dove anche grazie agli attuali mezzi di comunicazione e trasporto ci siano nuove potenzialità, in un’emigrazione consapevole all’inverso e un ritorno pratico e non solo poetico con abitanti in crescita, attività imprenditoriali, turismo di qualità.
Non abbiamo tanto bisogno di idee, anche se ben vengano, ma di procedure semplici, finanziamenti e personale per attuare gli investimenti e rendicontarli. Si può in paese incrementare il lavoro dovendosi spostare fisicamente molto meno, ottenere documenti, essere in contatto con il mondo grazie a connessioni veloci e sicure, fibra. E infatti togliamo la neve dalle strade e curiamo la connessione.
Oggi si vuole giustamente vivere con più natura, socialità, qualità di vita e proprio la nostra storia, l’arte, i paesaggi, i prodotti, sono inimitabili. Le nostre case sono nuovamente abitate, frequentate, ma non vogliamo trasformarci in un grande centro turistico, o in una cittadina. Siamo Ferrera-Moncenisio, con la nostra dimensione, la tradizione, ma anche tanti servizi, grandi progetti, nuove idee, nuove storie.

Nel cuore di una regione alpina che si sente unita su entrambi i versanti, Ferrera-Moncenisio sta scommettendo sulla capacità di mantenere l’identità e la propria storia, ma anche di darsi un futuro.
Camminando fra queste stupende montagne, nevai e cascate, boschi e alpeggi guardo verso la catena imbiancata del Rocciamelone mentre scende la sera, ma non anche il buio.
Una magra marmotta lancia un ultimo fischio nella giornata, forse allarmata dall’aquila, ma sul muretto di pietre che cinge l’orto vedo due figure agitarsi. Un uccellino, un culbianco, sta lottando con l’ermellino, forse perché attaccato, o forse per difendere il territorio delle prossime covate.
Vederlo gettarsi così sull’ermellino fino a farlo fuggire a zig-zag tra le pietre, a modo suo, mi ha rievocato la lotta di San Giorgio con il drago.
Sarò romantico, forse troppo passionale, ma qui a Ferrera–Moncenisio siamo in tanti così, a fare passi in salita con la montagna nel cuore.